Il 23 maggio 2011 è uscito Born This Way di Lady GaGa. Dopo un anno di attesa, infervorata dalle ovazioni dei fortunati primi ascoltatori (e anche dalla stessa GaGa, con pochissima modestia), finalmente il tanto atteso terzo album della cantante più seguita del momento si presta agli ascolti della massa.
Già dalla cover, l’album si presenta sicuramente come qualcosa di strano, cioè normale conoscendo il personaggio che l’ha prodotto: una sfinge versione duemila, dove il corpo di una GaGa ruggente è sostituito da una moto, pronta a sferragliare e partire a razzo. La moto non è causale: ascoltando i diversi brani è in realtà un elemento ricorrente, sia inteso come simbolo di viaggio, quindi di libertà ma anche se inteso come icona di personaggi rudi, vestiti con giacche di pelle e stivali. E magari facenti parte di una band rock. Pur affidandosi alla ormai stereotipata electro-dance, infatti GaGa fa abbondante uso di chitarre elettriche ma anche di sax e di un organo.
Proprio il suono dell’organo viene in mente ascoltando l’inizio della prima canzone, “Marry the Night”: una sorta di marcia funerea accompagna GaGa ormai pronta a cavalcare la notte, promettendo a se stessa di non disperarsi mai più e proclamandosi una regina guerriera. E’ interessante come la canzone prenda una direzione malinconica, benché il beat dance cominci ad incalzare e i suoni synth si facciano strada tra le sue varie confessioni di essere prima una perdente e una vincente poi.
Molto interessanti dal punto di vista elettronico sono “Government Hooker” e “Scheiße”. La prima si riferisce alle “puttane del governo”, con un testo scarno e un invito al presedente J. F. Kennedy di metterle le mani addosso. L’inizio con i gorgheggi di GaGa non farebbero mai pensare l’intrusione di un battito così potente: con pochi suoni elettronici ma giusti, forse questa è una delle migliori canzoni dance dell’album. Lo stesso vale per “Scheibe”, dove il testo passa quasi in secondo piano, cioè frasi in tedesco come il titolo, in favore della musica, ancora molto dance ed elettronica, ma non disturbante e chiassosa, anzi possente e dettagliata. Scarna anche è la loro struttura: se uscissero come singoli, questi brani non potrebbero certo contare su un ritornello catchy o un motivo ad effetto. Sarebbe la musica a colpire, il potente beat. Lontano insomma dalla preistorica “Just Dance” o dalla sputtanata “Alejandro”.
E sulla via dell’essere sputtanata è sicuramente “Americano”: richiamando il mandolino italico e frasi in una sorta di spagnolo “americanizzato”, questo brano si presenta come il meno interessante ma sicuramente costruito strizzando l’occhio alle varie charts e alla stagione estiva.
Il beat dance si riposa finalmente, offrendoci il primo assaggio del sax in “Hair”. Con uno spirito adolescenziale, Lady GaGa urla ai suoi genitori di voler essere ciò che lei sente, e quello che sente è il bisogno di essere liberi. Incursioni rock sono presenti quando viene scandito perbene il suo inno: essere libera come i suoi capelli. Una delle rare occasioni di GaGa dove si può ascoltare una canzone senza elementi tamarri o fortemente dance (e senza neanche un testo così ispirato come si voglia far pensare).
Il tema del viaggio ritorna in “Highway Unicorn”, synthpop fuso alla fine da una sezione di organo mentre si guida verso la strada dell’amore, bevendo fino alla morte. Il tema sacrale viene ripreso in “Electric Chapel”, rock e campane da chiesa fanno da base alle creazione del santuario sacro di GaGa, il suo corpo, e all’invito di entrare per essere al sicuro. Anche “Bloody Mary” si presenta in modo singolare per essere una canzone di GaGa: un pizzicato iniziale e un coro maschile che invoca il suo nome preparano un’atmosfera cupa per le frasi con chiari riferimenti biblici (ancora) e alla figura del famoso fantasma folkloristico.
Finiti i discorsi religiosi, GaGa torna alle origini con "You and I" al piano, facendo una romantica dichiarazione d’amore arricchita ancora una volta da elementi rock, ad opera di un esperto nel settore, il chitarrista dei Queen Brian May, tant’è che la voce della cantante sembra passare in secondo piano.
“The Edge of Glory” chiude l’album con ottimismo, con una GaGa sulla soglia della felicità e ancora con il sax suonato da Clarence Clemons, per un’ultimo battito di cuore e di dance questa volta richiamando gli anni ‘90.
L’album nel complesso si presenta un prodotto buono. Alcune canzoni da scartare ci sono (come “Bad Kids”, “Heavy Metal Lover” o addirittura i primi due singoli, “Born This Way” e “Judas”, estremamente scontati e con l’obiettivo di tener un singolo in top ten al momento dell’uscita del disco), ma considerando le piccole innovazioni portate nel proprio campo da GaGa, può essere un progetto da valutare.
Sicuramente le innovazioni non sono introdotte nel mercato musicale: non ci sono elementi nuovi o temi scottanti tanto da proclamare l’album come il “migliore del decennio” oppure che porti ad una qualunque rivoluzione culturale (come era stato promesso dalla stessa Lady). Sicuramente si presenta ad un livello diverso dai vari lavori che governano il mercato del pop, ma una vera virata non si intravede.
Se l’obiettivo è diventare un’artista bisogna quindi smussare ancora un po’ quei lati truzzi che spesso e ben volentieri GaGa lascia trasparire, attraverso video monumentali spesso mal costruiti e facili al crollo (vedi “Judas”), e bisognerebbe ridimensionare l’ego spropositato che il suo personaggio sta acquisendo, a tal punto da soffocare la persona Stefani Germanotta che fin dalla tenera età canticchiava al pianoforte, non avendo la minima idea suppongo che si sarebbe svenduta alla dance electro-trash.
troppo lungo.....mi scoccio a leggere......
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